Se il buon giorno si vede dal mattino, l’ouverture di quest’Opera è di quelle che lasciano presagire molteplici rappresentazioni che lasceranno il segno. Una via cortissima, il grattacielo Intesa Sanpaolo incombe, siamo nei locali dell’ex foresteria della confinante chiesa dei frati di Sant’Antonio. Sacro e profano così vicini? Ma la buona tavola è cosa seria, una religione laica i cui riferimenti ai riti che attengono al mondo spirituale non sono così rari.
Sorto dalle ceneri di Dadò, il locale mantiene quel calore e l’intimità che solo il mattone, la pietra, il legno e i colori tenui dei muri sapientemente abbinati sanno creare. L’architetto Emanuele Cometto e la sua famiglia non hanno avuto molto da ripristinare tanto le due sale, al piano e al seminterrato fossero già accoglienti e fascinose. Solo la cucina è stata completamente rinnovata e adattata alle esigenze del direttore d’orchestra che dovrà rendere immortale l’Opera e mai lasciarla incompiuta. Il trentaduenne Stefano Sforza è ormai una mia vecchia conoscenza, lo seguo e apprezzo dai tempi dell’alberghiero a Lanzo, quando diciassettenne già voleva stupire e uscire dagli schemi preconfezionati. Le esperienze in Italia e all’estero, gli anni alla testa delle cucine della Bella Rosina e delle Petites Madeleines hanno perfezionato, affinato e completato lo stile, ora personale. Il primo impatto con il neonato ristorante è avvincente. Stefano annuncia la sua filosofia che sposo immediatamente, senza indugi: tre soli ingredienti per piatti e la frutta onnipresente per portare acidità senza “agenti esterni”. Evviva! Basta con i piatti dove mille ingredienti si sovrappongono, spesso con poco senso e confondendo olfatto e palato senza nulla apportare a livello di piacere gustativo. Il primo applauso della rappresentazione è già stato attribuito.
Gaultiero, maître e Massimiliano, sommelier, giovani e professionali, si muovono con eleganza e disinvoltura. La carta dei vini, ancora in divenire riserva già alcune belle sorprese come il Suadens della cantina campana Nativ, un fresco assemblaggio di Falanghina, Greco e Fiano. Il percorso a mano libera è ineccepibile, senza stonature, un crescendo naturale e momenti di reale appagamento con il rognone di coniglio, chutney di mango, brodo di zenzero e peperoncino e il piccione in bbq, salsa al curry e albicocca fermentata.
Fresco, di nome e di fatto, poco dolce e assolutamente adeguato a un fine pasto non invasivo, il dessert di alchechengi, calamansi - agrume esotico -, sorbetto al dragoncello e peperoncino e brodo di mango. E non dimentico di citare gli amuse bouche che avevano due sublimi pilastri: il tartare di taggiasche e basilico con nappatura di cioccolato bianco e l’uovo con tuorlo montato, ananas, spuma di piselli, menta e dragoncello. Sono sicuro che questa profumata, intrigante erba aromatica Stefano ha imparato ad amarla nei suoi trascorsi francesi, l’estragon è una delle herbes che marcano indelebilmente la cucina provenzale.
Non mi resta che dire grazie alla famiglia Cometto per avere scelto questo cavallo di razza che con lo staff di cucina – a proposito anche Claudio Lochiatto è ai fornelli – e di sala selezionati può puntare molto in alto.
Importante ancora segnalare che seppur vicino al centro, il posteggio, specie alla sera, non è così difficile: altro vantaggio non da poco.
Il primo atto dell’Opera entusiasma e accende una nuova luce nel panorama gastronomico torinese, oggi molteplice e variegato ma non sempre emozionante e intrigante.
Opera
Via Sant’Antonio da Padova, 3
Torino
Tel: +39 011 1950 7972
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