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Alessandro Felis

Chansong! We sing en français!


Non passa giorno senza che mi ritrovi a criticare la pletora di personaggi che sentenzia su cibo, vino e cuochi, senza averne il benché minimo diritto! Quello che deriva dalla competenza frutto di studio, lavoro, impegno, serietà professionale e che latita anche se tutti si autoproclamano maestri, esperti e guru onniscienti. E stasera, stanotte sarebbe meglio dire, la penna in mano – metafora d’obbligo a chi il pc lo subisce come male necessario – temo di ritrovarmi a usurpare un ruolo che non è il mio, ma con l’umiltà del principiante e la voglia di lasciare andare le emozioni, eccomi a parlare di musica. Di musica? Di quelle sette note, sullo spartito apparentemente tutte così uguali ma così squisitamente diverse? Disquisire, raccontare, come deve farlo un cronista che si limita a riportare i fatti, senza emettere giudizi che richiederebbero una preparazione specifica e quindi da lasciare a musicisti e musicologi. Semmai, e questo è umano, con i sentimenti, le sensazioni di chi trascrive quanto prova. Lasciare andare gli occhi, le orecchie ma soprattutto il cuore e trasformare gli accordi in parole.

Un spettacolo denominato “chansong” già lascia intendere che le canzoni sono francesi ma soprattutto quelle che, attraversato l’Atlantico si sono ritrovate in terra statunitense, tradotte, adattate, a volte stravolte ma quasi sempre portate al successo mondiale. Una serata che rimette alcuni puntini sulle “i”, rendendo a Cesare quel che è di Cesare e scoprendo che molti motivi, dai più etichettati come nati da artisti americani, sono difatti stati composti oltralpe. Uno per tutti, “My way”, il cui titolo originale è “Comme d’habitude”. I figli dell’autore, Claude François, prematuramente scomparso nel 1978 a soli 39 anni, percepiscono qualcosa come 750.000 euro all’anno di diritti d’autore.

Il palco del piccolo seducente auditorium dell’Educatorio della Divina Provvidenza accoglie Fulvio Vanlaar al pianoforte – e al flicorno -, Luca Zanetti alla fisarmonica e Francesco Bertone al contrabbasso. E Liliana Di Marco, in arte Lil Darling, è il collante, l’anima, la sensualità di un quartetto che si trova ben presto a suo agio.

Le note delicate, appena sfiorate del “Clair de Lune dalla Suite bergamasque” di Debussy sono un dolce preludio allo spettacolo che procederà in un crescendo di motivi, non tutti così scontati per chi non è francese, ma ideali per ricreare il clima parigino. Vera mattatrice della serata, la vocalist jazz gioca con la voce, passeggia con l’inglese e si tuffa, senza timori riverenziali, nel francese. Un omaggio a Edith Piaf è d’uopo, nella ricorrenza del cinquantennale della scomparsa ed è proprio nelle canzoni del “passerotto” che il registro vocale di Lil dà il meglio, interpretando e plasmando un’ atmosfera magica tale da fare dimenticare qualche accento italiano che i cugini d’oltralpe qualificherebbero di “charmant”. Se le canzoni d’amore sono il fil rouge della serata, “les flonflons du bal” et “le disque usé”, brani per intenditori, portano Parigi sulle rive del Po e il quartetto si proietta “sous le ciel de Paris” proponendo un clima che abbatte le barriere spazio-temporali. Montmartre, Pigalle, la Tour Eiffel,… la Mole sbiadisce e vede delinearsi, disegnarsi le sagome che caratterizzano la capitale transalpina.

Le presentazioni dei brani, qualche aneddoto e commento, mai didattici bensì briosi e spiritosi, sempre con sorrisi e ironia e la serata vola come il tempo che in meno che non si dica vede la conclusione di questa parentesi sulle note evergreen di motivi che sono già nella storia francese anzi della Musica, quella con la M maiuscola, tout court.

“Je cherche un homme” di Eartha Kitt, bella scoperta per chi scrive, chiude in bellezza un momento che rimarrà impresso negli occhi e nel cuore dei partecipanti. E la voce di Lil, vibrante, chiara, forte e sicura continuerà a riecheggiare nella mente dei fortunati spettatori che non hanno nessuna intenzione di defluire per tornare a casa.






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